25 dicembre 2008
NATALE a BATTISTINI...
Battistini è uno dei capolinea a Roma della metro A. Da circa un anno e mezzo vivo a circa un km dal capolinea, quasi al culmine della salita che da Battistini porta a Primavalle. Ma andiamo con ordine... Da quanto Diego l'ex coinquilino si è portato nella nuova casa il suo porta cd che avevo in prestito, la mia stanza è invasa da pile di cd e di libri. Memore dell'esistenza a Roma di una piccola, ma bellissima bottega del commercio equo e solidale ho deciso oggi di andarci. Ho trovato quindi un bello scaffale di bambù con cassetto annesso per i libri ed un porta cd dello stesso materiale. Nonostante la mia notevole perplessità il commesso mi ha detto di fidarmi, mi ha impacchettato insieme i due oggetti con un manico fatto di spaghi secondo lui a prova di bomba. Insieme i due oggetti sono abbastanza enormi e nemmeno leggerissimi. Il negozio si trova (relativamente) vicino alla fermata di Furio Camillo, quasi dall'altra parte della città. 300 i metri tra il negozio e la fermata. Ne mancavano ancora 298 quando il manico a prova di bomba si è inesorabilmente rotto costringendomi fantozzianamente ad abbracciare il megapacco o in alternativa a trascinarlo tra le migliaia di bancarelle natalizie e di motorini parcheggiati in terza fila della Via Appia. All'arrivo alla metro ho fatto talmente pena ad una notevole fanciulla che, sotto lo sguardo dell'intero quartiere, intento negli ultimi minuti di shopping natalizio della seconda domenica di dicembre, mi ha dato una mano a scendere le interminabili scale. Ripresomi ho occupato praticamente due file di sedili, fortunatamente la metro non era stracolma. Dopo 40 minuti di viaggio eccomi arrivare alla già citata fermata di Battistini. Questa volta deciso di farcela da solo. E così, in bilico, tra gli scalini della scala mobile sono arrivato all'uscita, dove due camionette dell'esercito stazionano inutilmente dal mese di luglio dando l'impressione di trovarci in una città dell'america latina sotto una dittatura negli anni ottanta. Dopo aver cercato un paio di amici dotati di macchina inutilmente eccomi pormi il fantomatico dilemma. Come fare il chilometro buono di salita che mi separava da casa? Gli affollatissimi autobus che percorrono la salita erano infatti da scartare peraltro il pacco era così grande da non passare dalle porte. Sconsolato ho trascinato il pacco per una decina di metri. Ho superato il piccolissimo Bar che si chiama "Gran Bar" e ho attraversato faticosamente la strada. Ho pensato tra me e me ci vorrebbe proprio un bel carrello da supermercato. Purtroppo non ci sono supermercati vicino a Battistini, solo pizzerie al taglio... Mah, incredibilmente sotto un condominio ecco materializzarsi un... sì un... CARRELLO DEL SUPERMERCATO VUOTO E ABBANDONATO! Incredulo ho messo (non senza fatica ci stava appena e gran parte rimaneva pericolosamente fuori) il super pacco nel carrello è ho iniziato la salita. I sali e scendi ed i soliti motorini non erano da sottovalutare, ma le rotelle del carrello aiutavano notevolmente. Così sono arrivato fino a casa. Ho parcheggiato il carrrello vicino ai passeggini dei bambini ed ecco gli ultimi settanta scalini (mannaggia!) e casa era raggiunta. Non capita spesso nella vita di desiderare una cosa e di trovarsela inaspettatamente di fronte. Ma questa volta è capitato una domenica un po' prima di Natale.... a Battistini...
F.
| inviato da larete il 25/12/2008 alle 10:48 | |
8 settembre 2008
Globalizzazione e crisi del sociale
http://www.conquistedellavoro.it/archivio/2008/09/07/NA003.pdf
| inviato da larete il 8/9/2008 alle 13:53 | |
27 luglio 2008
Ieri notte.
Ieri notte. Una bella serata tra amici. Prima il concerto. Poi la festa della birra che continuava. Ho rivisto anche mio cugino di secondo grado dopo un anno, con la sua bellissima e timidissima fidanzata ungherese. Alle 2 40 si decide di tornare. Per scherzo uno dei ragazzi che erano in macchina con me mi fa fare un giro più lungo, allunghiamo di 5 minuti. Ci immettiamo sulla strada che porta verso Parma dalle colline, quelle dove si produce il famoso prosciutto. Alcune macchine ferma davanti a noi. 5 minuti prima il disastro. Una macchina con quattro diciottenni che arrivava in direzione opposta alla nostra ha invaso ad altissima velocità la corsia opposta e si è scontrata frontalmente con un'altra. Due ragazzi sbalzati via, nel fosso. Due intrappolati. Due morti, sul colpo. Di uno ci si accorge in ritardo, è nascosto dal buio e dalle sterpaglie. Due in gravissime condizioni. Sangue, tanto sangue. Il conducente dell'altra macchina, anch'essa distrutta, è sotto choc. Sanguina anche lui, ma c'è altro a cui pensare. Arriva un'ambulanza, non basta. Dal mio cellulare chiamano i pompieri. Una ragazza piange a dirotto. Uno dei feriti, intrappolato tra le lamiere, urla, sempre meno forte. Un ragazzotto arriva per filmare su you tube, ma il quadro raccapricciante blocca la sua improvvida idea. Pianti, lacrime. Oggi, dopo Messa ho scoperto che i morti erano alunni di una mia parrocchiana. Non erano professionisti dello sballo, solo giovani forse un po' inesperti, neopatentati. Con i miei amici riflettiamo mentre risaliamo verso Parma sulla strada alternativa che costeggia il castello di Torrechiara. Qualche ora prima, in tutt'altro contesto, avevo pensato ad un grande amore passato. Ricordavo con dolcezza e, anche, lo ammetto con un po' di nostalgia, un passato lontanissimo e finito. Vivere con amore alla fine è un gesto quasi egoistico. Basta poco, per vedere svanire sogni, speranze, progetti. Ma basta poco, ogni giorno, anche per coltivarli, nell'incontro spesso difficile, spesso appassionante, di sicuro impari, con la Vita.
F.
| inviato da larete il 27/7/2008 alle 20:40 | |
30 giugno 2008
Speciale.
I GIOVANI TRA MERCATO DEL LAVORO E DIMENSIONE SOCIALE
| inviato da larete il 30/6/2008 alle 16:2 | |
27 giugno 2008
Bose.
Seminario di studio e di riflessione |
Laicità al futuro Bose-Ivrea, 27-29 giugno 2008
Per contribuire all’analisi dell’attuale situazione politica, all’indomani della recente tornata elettorale, ARGOMENTI2000 propone, nell’ambito delle iniziative per il 2008, “Laicità al futuro”, un seminario, ad invito, per riflettere sui temi della laicità e della cittadinanza ma anche sul cattolicesimo politico nella presente stagione. |
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| inviato da larete il 27/6/2008 alle 9:26 | |
23 giugno 2008
Interessante mappa di Diamanti...
MAPPE / Il voto complica il rapporto Chiesa-politica Sono i cattolici "tiepidi" lo zoccolo duro del Pdl
Il popolo cattolico disperso in politica
di ILVO DIAMANTI DOPO il voto, le polemiche intorno al rapporto fra Chiesa e politica sembrano meno accese. La netta vittoria del Centrodestra, anzitutto, ha espunto dall'agenda parlamentare i temi etici, che tante polemiche avevano sollevato, soprattutto nel Centrosinistra. Per questo, le materie che hanno ostacolato il breve percorso del governo Prodi (coppie di fatto, fecondazione assistita, eutanasia) probabilmente verranno accantonate. Mentre difficilmente il Centrodestra rivedrà la 194, che regola l'interruzione della gravidanza, come vorrebbero le gerarchie ecclesiastiche. D'altronde, il Pdl ha lasciato solo Giuliano Ferrara a combattere la sua battaglia per la moratoria contro l'aborto. È probabile che, sull'argomento, prevalga la rimozione. Come, in fondo, è avvenuto in campagna elettorale, per tacita, reciproca intesa fra i due maggiori candidati premier.
A Berlusconi, d'altronde, non piace aprire grandi e laceranti discussioni fra gli elettori; i suoi, in particolare. Preferisce dialogare con la gerarchia in modo diretto. A tu per tu. Rassicurando il Pontefice sul sostegno alle famiglie e alle scuole cattoliche. Oppure invitando un vescovo a spendersi affinché la Chiesa permetta ai divorziati di "fare la comunione" (quindi anche, ma non solo, a lui: per evitare il sospetto di una indulgenza "ad personam").
Le posizioni della Chiesa, inoltre, in questa fase non favoriscono una specifica parte politica. Sui temi bioetici e sulla famiglia la gerarchia ecclesiastica è in contrasto con il Centrosinistra. Ma avviene il contrario in materia di sicurezza e di immigrazione. Così, la "questione cattolica", in Italia, non sembra più al centro del dibattito politico. Anche la polemica di Famiglia Cristiana sul ruolo dei cattolici nel PD avrebbe avuto un impatto mediatico assai maggiore qualche mese fa, quando i Democratici erano al governo. Mentre ora sono la minoranza della minoranza.
Tuttavia, è lo stesso risultato elettorale ad aver complicato il rapporto tra Chiesa e politica. Dopo la fine della Dc - il partito dei cattolici - la Chiesa ha scelto di agire in proprio sui temi di maggiore interesse. La gerarchia è intervenuta in modo diretto, insieme a gruppi, circoli e comitati del mondo cattolico. Ha investito con maggiore decisione sulla comunicazione e sui media. Dai quotidiani (L'Osservatore Romano, l'Avvenire, Famiglia Cristiana) alle emittenti radiotelevisive. Sostenuta da intellettuali e media "non" cattolici. Anzi: laici; atei (più o meno) devoti. Raccolti intorno al Foglio di Giuliano Ferrara.
Una "Chiesa extraparlamentare", l'ha definita Sandro Magister in un lucido saggio di alcuni anni fa (pubblicato dall'Ancora del Mediterraneo). Capace di promuovere massicce campagne di opinione. Disposta a "scendere in campo" direttamente, come ha fatto in occasione del referendum sulla procreazione assistita. Questo modello è stato ispirato e guidato dal cardinale Camillo Ruini. Che ieri si è congedato dal ruolo di "vicario" di Roma, dopo quasi 18 anni. Esortando i vescovi, nel commiato, a non essere "sudditi". Di certo non lo sono stati negli ultimi 20 anni. Semmai il contrario.
Tuttavia, questa linea oggi appare in discussione. Per funzionare, esige una Chiesa in grado di orientare, almeno in parte, le scelte elettorali dei cattolici. In modo da premiare oppure punire le forze politiche, in base alla coerenza con le posizioni della Chiesa. Capace, ancora, di influire sulle scelte legislative, attraverso parlamentari "fedeli". Come un "gruppo di pressione" (non diremo "lobby", per non generare equivoci) in grado di esercitare una "pressione" efficace. Ciò non è avvenuto, in questa fase.
Giuliano Ferrara (ancora lui) ha denunciato, dopo le recenti elezioni, l'indebolirsi della presenza dei cattolici e degli esponenti vicini alla Chiesa: nell'attuale governo e nei posti-chiave dei principali partiti. Conseguenza implicita della scelta della Chiesa di non scegliere. Di non schierarsi apertamente. E, semmai, di appoggiare l'Udc di Casini e di Pezzotta. Coltivando una tentazione neodemocristiana. Una critica esplicita alla strategia "extraparlamentare" di Ruini.
Le recenti elezioni, d'altra parte, sottolineano come, dopo la Dc, sia finita anche l'era dell'unità politica dei cattolici. In modo, forse, definitivo. Lo mostrano i dati dell'indagine condotta dal Laboratorio di Studi Politici dell'Università di Urbino (LaPolis) nelle settimane successive al voto (campione nazionale di oltre 3300 casi). I cattolici confermano, come nel recente passato, di essere orientati prevalentemente a centrodestra. Il 34% di coloro che frequentano assiduamente la messa domenicale ha, infatti, votato per Veltroni (il 30% per il PD); il 48% per Berlusconi (il 41% PdL).
Tuttavia, la differenza rispetto al totale dei votanti non è eccessivo. Fra i cattolici praticanti, infatti, il Pd ottiene 3 punti e mezzo in meno rispetto a quanto avviene fra i votanti nell'insieme. Il contrario del PdL. Tuttavia, conviene rammentare che quanti vanno regolarmente a Messa (secondo l'Osservatorio socio-religioso triveneto, diretto da Gian Antonio Battistella e Alessandro Castegnaro) costituiscono una quota di poco inferiore al 30% della popolazione. Per cui, rispetto al risultato ottenuto dal Pd e dal PdL fra i votanti nel complesso, la differenza espressa dal voto dei cattolici praticanti si riduce a circa l'1% L'Udc, da parte sua, ha effettivamente intercettato una quota di cattolici quasi doppia rispetto al proprio peso elettorale. Il 10% dei cattolici praticanti assidui. Che, però, sul totale dei voti validi, significa non più del 3%. Poco per garantire ai cattolici peso e rappresentanza. Anche perché, comunque, il 90% dei cattolici ha votato diversamente. Dati molto simili emergono da altre ricerche (Itanes, nella parte curata da Luigi Ceccarini; dati Ipsos, nelle analizzati da Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni).
Anche per questo riteniamo che i progetti neocentristi volti ad allargare la base elettorale dell'Udc non produrranno effetti significativi. Visto che la presenza radicale nel Pd non pare averne indebolito la capacità di attrarre il voto cattolico. Peraltro, nella base elettorale dei principali partiti (Udc esclusa), i cattolici praticanti costituiscono una porzione significativa, ma minoritaria. E, sui temi sociali ed etici, esprimono posizioni maggiormente vicine alla parte politica di riferimento piuttosto che alla Chiesa.
Semmai, la preferenza per il Centrodestra appare molto più evidente fra i cattolici che esercitano la pratica religiosa in modo saltuario. Una componente, peraltro, ampia degli elettori (circa un quarto del totale), poco sensibile agli insegnamenti ecclesiastici. Animati da grande fiducia nella Chiesa, questi cattolici interpretano e praticano una religione secolarizzata e privatizzata. Più simile al "senso comune" che a una professione di fede esercitata con coerenza.
L'influenza della Chiesa, per essere davvero influente, deve rivolgersi in particolare a questo popolo di "fedeli tiepidi". Peraltro, più tradizionalisti e orientati a destra, sui temi etici ma anche sociali. Tuttavia, la "missione" perseguita da Benedetto XVI non dimostra indulgenza verso il relativismo religioso ed etico. Al contrario, mira a recintare il "campo religioso", tracciando confini chiari fra la verità dei cattolici e quella degli altri. Per questo potrebbe avvenire che la Chiesa abbandoni la via extraparlamentare. Che la gerarchia cattolica concentri la propria pressione (e la propria "missione") sulla politica e i politici. Cattolici e non. Ma, ancor prima, sugli stessi cattolici. Soprattutto, i più "relativi". Per rafforzare il potere di rappresentanza della Chiesa. E, forse prima ancora, per "educarli". Per trasformare la loro fede da relativa in assoluta.
(23 giugno 2008)
| inviato da larete il 23/6/2008 alle 13:46 | |
20 giugno 2008
Publick speaking (Nicola Oliva)
Come si fa a ratificare Lisbona se ci sono due Europe?
Ratificare Lisbona?
Europa Toscana, 20 giugno 2008
Il democratico "No" irlandese che ha prevalso nel referendum per la ratifica del Trattato di Lisbona segnerà profondamente il dibattito europeo. Le posizioni al riguardo sono le più varie. Si sarebbe tentati di liquidare l’argomento per via delle affinità con la tradizione celtica della Lega Nord, che prova a porsi di traverso al processo di ratifica in Italia. Le posizioni di euroscettici come Antonio Martino non aiutano a entrare nel merito, il solo trovarsi in compagnia di tali soggetti scatenerebbe la disapprovazione generale. Ma siamo poi davvero convinti sostenitori di questo Trattato? Quel che emerge è che pochi ne conoscono il contenuto, persino il premier irlandese lo ha ammesso pubblicamente, ed era un sostenitore del sì! La linea in Italia è quella di procedere ad una “rapida e decisa” approvazione. Su queste pagine ben altri autorevoli uomini sono in grado di spiegare le ragioni di questa linea, a me preme qui indicare quelle che sono le criticità. Offrire qualche spunto di riflessione sarebbe di per sè un bel risultato, nessun tono professorale da parte mia. A Firenze, su iniziativa promossa dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, ho assistito ad un dibattito che poneva il quesito: “Ratificare Lisbona?”- e non è frequente trovare momenti di analisi e di confronto-. Il Prof. Giuseppe Guarino, docente emerito di diritto amministrativo, ha spiegato la differenza che corre tra euromercato ed eurosistema (anche eurolandia): dei 27 Paesi soltanto 13 hanno in comune l’euro. Ci sono due Europe. Quei Paesi, in prima fila Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, che non hanno aderito all’euro, conservano il potere di stabilire il tasso di interesse e traggono un vantaggio dagli altri che invece hanno deciso di aderire a Maastricht, potendo speculare sui tassi e quindi drenare risorse. Com’egli ha avuto modo di sostenere, anziché ragionare del mito dell’Europa, conviene esaminare le questioni. Siamo al paradosso per cui a vigilare sui conti pubblici per il rispetto dei parametri può esserci un commissario che proviene da uno stato che non ha aderito all’euro. Guarino individua la radice dei problemi economici dell’Europa nei due parametri sul debito e l’indebitamento, che stanno bloccando la crescita. Manca un’Europa politica, ci si è rifugiati nel tecnicismo autoreferenziale in cui gli stati dell’eurosistema hanno ceduto sovranità monetaria, sono frenati nelle politiche di bilancio, non possono intervenire sul mercato giacché sono equiparati ad un qualsiasi operatore privato. Queste ed altre motivazioni fanno giungere alla constatazione che casi diversi sono trattati in modo omogeneo, perpetuando le differenze. Guarino cita una frase di Carli del 1972 con cui mette le mani avanti, pressappoco dice «libero dal timore che le critiche al merito debbano farci tacciare di antieuropeismo», riflette sui quindici anni di Maastricht: il rapporto debito/pil della Francia è cresciuto dal 35% al 63%, in Germania dal 40% al 67%, in Italia è passato dal 98% del ’91 al 106,8% del 2006, come a significare che il processo di privatizzazioni non ha servito lo scopo. Guarino nota come nell’era Maastricht la crescita media del Pil italiano è risultata la metà del quindicennio anteriore, un quarto di quella che va dal ’45 al 1980. Ed allora di quale progetto europeo siamo sostenitori? I dati sconsigliano di attribuire ulteriori poteri ad organi comunitari privi di legittimazione democratica. Che questi spunti possano illuminare il dibattito politico nel Pd, perché si esprima la vocazione popolare e si operi di conseguenza per il bene comune.
| inviato da larete il 20/6/2008 alle 14:13 | |
15 giugno 2008
Incontro...
“Le discriminazioni etniche e razziali nel mondo del lavoro:
un modello di intervento territoriale”
Evento di chiusura del Progetto LEADER e presentazione del volume
Quale parità per i migranti? Norme, prassi e modelli di intervento contro le discriminazioni
Roma, giovedì 26 giugno 2008
Sala Gialla del CNEL, Via D. Lubin, 2
14.30 Caffè di benvenuto
15.00 Le ragioni di una battaglia politica e culturale
Coordina:
Andrea Amato, Imed
Introduce:
Maria Grazia Ruggerini, Imed
Intervengono:
Oberdan Ciucci, Cisl; Filippo Miraglia, Arci; Mohamed Saady, Anolf;
Pietro Soldini, Cgil;
16.00 Quale parità per i migranti?
Presenta la pubblicazione:
Francesco Carchedi
Ne discutono:
Agostino Megale, Ires, Domenico Paparella, Cesos, Massimo Pastore, Asgi,
Paola Piva, Studio Come; Carlo Bolpin, Agfol
17.00 I risultati della sperimentazione delle RITA
Coordina:
Carla Scaramella, Imed
Intervengono:
Vincenzo Coppola, Anolf Nazionale; Walter Massa, Arci nazionale;
Coordinatore RITA Anolf; Coordinatore RITA Arci
18.00 Conclusione dei lavori
| inviato da larete il 15/6/2008 alle 23:54 | |
14 giugno 2008
Meditare...
La passeggiata di Benedetto e George W. |
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ALDO MARIA VALLI | |
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Mentre gli amici Joseph e George passeggiano lungo i vialetti dei giardini vaticani, il pensiero va a papa Wojtyla. Che cosa avrebbe detto lui di questa visita, lui che con tanto ardore tirò le orecchie al “cristiano rinato” Bush ricordandogli che libertà e democrazia non si esportano massacrando gli innocenti? Per quanto uno la voglia ricacciare indietro, perché la storia prosegue e bisogna guardare al futuro eccetera, la domanda torna a ogni passo dei due amici in questa bella giornata di sole, con i giardini ancora più ordinati del solito, i pueri cantores della Sistina che intonano angelici mottetti e i tiratori scelti che dalla cupola di San Pietro tengono sotto mira qualunque cosa si muova nei dintorni. La domanda sarà pure ingenua, ma al cuore non si comanda, specie se ti è capitato di vivere in presa diretta gli allarmi e gli appelli lanciati a ripetizione da Giovanni Paolo II nei giorni terribili della crisi irachena, quando la Santa Sede divenne di fatto la nuova Onu e al palazzo apostolico volgevano lo sguardo tutti quelli che ancora si sforzavano di cercare un briciolo di giustizia nelle relazioni internazionali. Quando avvenne tutto ciò? In questo secolo o in un altro? Una distanza siderale sembra separare George, Joseph, i vialetti vaticani e i mottetti angelici dai cortei per la pace, dalle bandiere arcobaleno al vento e dal vecchio papa malato che trovò nei recessi dello spirito le ultime forze per gridare il suo irrevocabile no alla guerra e alla prevaricazione. I processi alla storia sono patetici quando nascono dalla nostalgia, ma come evitare certi cattivi pensieri mentre mister Bush, che si ritiene un eletto del Signore, passeggia amabilmente con il capo della Chiesa cattolica il quale in questo modo gli dà una consacrazione tutta speciale? Va bene, mister Bush è già fuori, appartiene ormai al passato degli Usa e del mondo, ma le immagini girate nei giardini vaticani resteranno, saranno utilizzate, peseranno. «La mia fede mi libera e mi consente di prendere decisioni che ad altri possono non piacere», disse una volta mister Bush in uno dei suoi frequenti accessi di messianismo. Utilizza la religione per sostituire il ragionamento, commentò allora uno psichiatra di poche parole ma profondo acume. Quando uno incomincia a dire “Dio lo vuole” c’è sempre da preoccuparsi. È tipico dei fondamentalisti il bisogno del nemico. Occorre loro per riconoscere se stessi. E così scovare nemici a ogni costo, anche dove non ce ne sono o dove comunque sarebbe più saggio usare altri mezzi anziché la violenza, diventa non solo legittimo ma necessario. E al diavolo il diritto internazionale. Un tipo di lavoro, questo, in cui l’ex alcolista Bush, già episcopaliano passato al metodismo della moglie Laura e poi conquistato dal fervore evangelico dei born again christians, s’è applicato con un certo successo. Una volta un teologo sudamericano (gente sospetta) mi spiegò che nei discorsi di Joseph Ratzinger è possibile rintracciare un grande bisogno di ordine che è tipico della sua graziosa terra bavarese, dove ogni cosa è al suo posto e tradizione è sinonimo di sicurezza. Per un uomo tanto ordinato, passeggiare lungo i vialetti degli impeccabili giardini vaticani dev’essere una soddisfazione senza pari. Ma se accanto a te c’è uno che si crede investito di una missione divina per la salvezza dell’umanità, e per realizzarla è disposto a compiere atti distruttivi di cui regolarmente si autoassolve, non c’è da farsi venire almeno qualche dubbio sull’opportunità di riceverlo con tanta empatia? Come al solito, il problema non sta nella patologia nel singolo, della quale si può avere pietà, ma nel fatto che milioni di persone l’hanno voluto come presidente dell’unica superpotenza rimasta. E allora, visto che il soggetto nel frattempo ha fortunatamente maturato l’età pensionabile, non sarebbe meglio catalogare il suo caso fra le tristi bizzarrie della storia e voltare pagina? Perché un ricevimento tutto all’insegna dell’amicizia più intima? Il teologo Ratzinger è abile e da buon ex capo dell’ex Inquisizione può darsi che durante la passeggiata abbia sussurrato all’orecchio dell’ospite qualche santo consiglio per ravvedersi ed evitare le fiamme dell’inferno, argomento al quale gli evangelici, dopo tutto, sono piuttosto sensibili. Pur avendo seguito la camminata non abbiamo saputo che cosa si sono detti i due. Non ci resta che sperare. No, non che, come si dice in giro, mister Bush voglia fare il quarto salto spirituale e passare al cattolicesimo. Per carità. La speranza è che Benedetto, durante la passeggiata, gli abbia fatto la stessa semplice ma decisiva domanda che già il predicatore evangelico Bill Graham rivolse a Bush anni fa: «Senti George, sei a posto con Dio?».
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| inviato da larete il 14/6/2008 alle 14:27 | |
7 giugno 2008
Il fiore rosso di un testimone.
Articolo pubblicato oggi su Conquiste del Lavoro http://www.conquistedellavoro.it/archivio/2008/06/07/NA010.pdf
| inviato da larete il 7/6/2008 alle 23:48 | |
2 giugno 2008
Lo spirito laico del religioso Giuntella
Lo spirito laico del religioso Giuntella
di Stefano Ceccanti
Giovedì sera alle 18 alla Libreria Ave di Via della Conciliazione dovevo presentare l’ultimo libro di Paolo Giuntella, “L’aratro, l’ipod e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano”. Quella stessa via in cui al numero 1 stavano fino a qualche tempo fa tutti gli uffici dell’Azione cattolica e della Fuci e nei cui corridoi per lunghi anni avevamo dibattuto appassionatamente nelle sue visite frequenti e imprevedibili. Da qualche giorno avevamo sospeso quella presentazione. Paolo non stava bene. Il suo male si era aggravato con una velocità impressionante. Giovedì, dieci minuti circa prima dell’ora prevista per quella presentazione ci ha lasciati a soli 61 anni. Per chi è credente ci sta solo aspettando “sotto il pergolato del Santo Benedetto di Israele” come scrive nel suo libro rispetto a Pietro Scoppola e alla sorella Maria Cristina. Mi aveva chiesto qualche giorno fa di commentare i capitoli sulla laicità. Mi sembra doveroso, credo che lui avrebbe preferito così, partire proprio da lì prima di parlarvi di Paolo, di cui molti in questi giorni scriveranno ricordi perché in molti gli dobbiamo molto. Saranno però ricordi diversissimi tra di loro perché Paolo era una personalità così ricca da non farsi identificare in modo esaustivo. Lo stesso libro ce lo dimostra, con uno stile narrativo ispirato al nomadismo, sfuggendo a definizioni, incasellamenti, alternando generi diversi e citazioni eterogenee. Come avrei risposto alla sua puntuale richiesta? La domanda sottesa alle parti sulla laicità è quella su come sia possibile condividere uno spazio di ricerca anche spregiudicata e un’intensa adesione alla verità, come si possa essere pienamente laici e pienamente cristiani. Ce lo dice bene in poche frasi, anche se per lui era molto più importante un buon elenco di esempi in carne ed ossa, a partire da suo padre Vittorio, da Vittorio Bachelet a Pietro Scoppola: “Noi siamo convinti di possedere la verità, mentre è il contrario. E’ la verità che ci possiede, e dunque ci rende liberi. La verità non è un randello, appunto perché non è nostra, non è un nostro possesso da imporre o custodire gelosamente. La verità ci possiede: dunque dobbiamo ascoltare più che urlarla in faccia agli altri. Dobbiamo servirla con i nostri comportamenti miti, umili. Per condividere la verità dobbiamo sottrarci al suo abuso, alla sua parodia identitaria”. Gli avrei detto non solo che ero d’accordo ma che questi suoi stessi concetti sono simili al ragionamento che fa uno studioso francese, Jean Bauberot, che fa vedere come la laicità sia stata una conquista che ha obbligato tutti a condividere lo spazio interno ad un triangolo, mentre ciascuno, in quella parodia identitaria di cui parla Paolo, vorrebbe vedere solo il proprio lato: i credenti della religione di maggioranza rivendicano il peso della loro forza e del radicamento storico, quelli delle religioni minoritarie l’uguaglianza a prescindere dal numero, gli atei e gli agnostici la separazione tra Stato e Chiese. La laicità è possibile quando ciascuno si volta verso i lati degli altri e capisce che la verità tende ad abbracciarli e a criticarli tutti. Sono contento che mi avesse chiesto della laicità perché commentare altre parti mi sarebbe stato molto difficile. Francamente non avrei saputo proprio cosa aggiungere a chi aveva dovuto sopportare la morte precoce di due sorelle in un anno e che a partire da quella esperienza ha scritto, dopo un profondo travaglio richiamato nel libro con una bellissima lettera sotto pseudonimo “Io credo che la morte non abbia l’ultima parola” e che, parlando nelle ultime pagine di sé ci ha scritto in un capitolo dal titolo “Nota di congedo”, oltre al sincero riconoscimento “il mio barometro personale dovrebbe essere moderatamente sul brutto” qualcosa di ancor più profondo: “Il ‘lieve’ problema di salute che mi ha colpito, mi appare un passaporto per entrare nel mondo della grande maggioranza dell’umanità che non gode di privilegi materiali e lotta e soffre per la vita, se non addirittura per la pura sopravvivenza”. Questo è ciò che avrei detto lì, nel dibattito che non c’è stato. Scrivendo per parlarvi di Paolo vorrei però spiegarvi perché sarei stato lì, perché per me Paolo è stato un ‘maestro’ oltre che un amico. Uso la parola ‘maestro’ tra virgolette come fa Paolo nel libro, lui per rispetto a suo padre Vittorio, a Vittorio Bachelet e Pietro Scoppola perché ad essi “l’espressione non sarebbe piaciuta” in quanto “consideravano Maestro uno solo, l’Uomo-Parola di Dio crocifisso”, io per rispetto a lui che in fondo condivideva quel giudizio. L’ho conosciuto prima della Fuci, quando ero uno studente di liceo a Pisa e insieme ad altri coetanei eravamo, più o meno consapevolmente, alla ricerca di una sorta di terza via tra la vecchia identità di sinistra, anche cattolica, che nelle forme classiche del cattolicesimo del dissenso si stava illanguidendo, stava diventando molto ripetitiva, assorbendo dalla sinistra spinte ideologiche e massimaliste superate anziché metterle in discussione, e le forme di nuova destra che cominciavano a prosperare nella Chiesa e fuori di essa. Lui, che generazionalmente era uno dei pochi fratelli maggiori creativi rimasti nella Chiesa cattolica dopo il ciclone del ’68 era l’incarnazione vivente che quella terza via era possibile. Ce lo ricorda nel libro, con tratti autocritici rispetto a qualche via di fuga ribellistica in cui lui stesso era caduto: “la terza via, che alcuni di noi coltivavano come i monaci buddisti in Vietnam, non poteva essere né contro né lontana dai nostri coetanei”. Ancora da liceale mi consigliò, tra le altre, la lettura dell’ultimo scritto di Emmanuel Mounier, “Fedeltà”, che invita i credenti a impegnarsi oltre gli schemi ambigui della politica cristiana e a comprendere le condizioni di possibilità per il vero progetto politico per cui valga la pena di impegnarsi, la costruzione di una “sinistra non comunista”. Quel testo precorre con decenni di anticipo anche la nascita del Partito Democratico che, se è potuto effettivamente sorgere, è anche per la semina di persone come Paolo, per anni instancabile animatore di incontri in tutta la periferia italiana, per abbattere muri, certezze apparenti, ripetizioni datate del passato, che ha seguito in tutta la sua vita l’invito che Mounier fa alla fine di quel testo: “Bisogna che riprendiamo la rivolta dei nostri vent’anni, le rotture dei nostri venticinque anni.”
| inviato da larete il 2/6/2008 alle 8:36 | |
28 maggio 2008
Paolo Giuntella
Paolo Giuntella, me lo vedo sghignazzare per il bordello che è riuscito a mettere in piedi anche al suo funerale. Di Ennio Remondino.
Chi si fosse trovato sabato 24, attorno all'una e mezza, bloccato nel traffico lungo viale Mazzini, all'altezza della chiesa di Cristo Re, sappia che la colpa è stata tutta di Paolo Giuntella. Centinaia e centinaia di persone sulla scalinata della chiesa, come su di una gradinata a sentire e partecipare ai canti afro di un gruppo misto di giovani neri e bianchi che mischiavano inni alla gioia e alla speranza in congolese o inglese o qualunque lingua a loro piacesse. Festa per Paolo, che se ne stava finalmente a riposo, liberato dalle sofferenze umane di ieri, sghignazzando certamente per il bordello che era riuscito a mettere in piedi anche al suo funerale.
Paolo Giuntella, per quelli di voi che ancora guardano la televisione, era quel buffo signore con farfallina e barba che per una decina d'anni ci ha raccontato sul Tg1 del Presidente della Repubblica. Quirinalista, si dice, che poi vuol dire il giornalista incaricato di seguire il Capo dello Stato in ogni sua visita ufficiale, in Italia o per il Mondo. Paolo, pur prigioniero dello strettissimo protocollo di rito e sicurezza, è riuscito sempre e comunque a dirci cosa era accaduto, cosa era stato detto e, soprattutto, cosa era sottinteso. Ai confini con l'impossibile. Paolo Giuntella se n'è andato dopo aver combattuto la sua ultima battaglia contro la malattia e averla persa. Del resto, quella per le cause perse era vocazione di vita per Paolo.
Contro la povertà, contro il razzismo, contro le discriminazioni, contro l'ingiustizia sociale, contro l'ipocrisia, contro la menzogna, contro il carrierismo, contro l'uso privato del bene pubblico della televisione. Destinato a perdere, a guardarsi oggi attorno. Cattolico democratico, potremmo chiamarlo. Per chi non lo amava, un "catto-comunista". Paolo era sicuramente un uomo di grande fede ed un uomo di radicata, profonda, assoluta convinzione democratica. Una forza morale che c'è piombata addosso anche sabato, quando ha taciuto lui, attraverso le parole di preghiera della moglie e dei figli. Una forza interiore in grado di far paura.
In quelle due ore e mezza di riflessione che Paolo c'ha regalato ho scoperto un modo pratico e pubblico per misurazione della fede personale in Dio. Sul volto di chi credeva che Paolo fosse tornato alla Casa del Padre, persino qualche sorriso o comunque lacrime serene. Le lacrime più difficili da ingoiare erano quelle di noi che non avevamo la consolazione di poterlo reincontrare. Fede condivisa, fede smarrita, assenza di fede e, per assurdo, una fede comune e forte che ha unito tutti quelli che assiepavano la chiesa. La voglia di stringersi attorno ad una fragile umanità di valore che dava senso a quel mestiere meraviglioso e assieme di merda che molti di noi avevano condiviso con Paolo.
Giornalista di razza, si diceva una volta. Certamente un uomo buono. Un "galantuomo", verrebbe da chiamarlo, parola ormai vietata per contratto. Anche occasione per ritrovarli, quei galantuomini che danno ancora speranza in un'Italia migliore. Carlo Azeglio Ciampi che resta per le oltre due ore attorno alla bara di Paolo e che esce alla fine, nel saluto quasi confidenziale di tanti giovani: "Buon giorno signor Presidente". I due corazzieri accompagnano la corona di Giorgio Napolitano e ne fanno le veci. Anche un pezzo di ciò che resta di quel giornalismo di "Servizio pubblico" Rai, l'orgoglio del Vecchio Tg1, quello di sostanza che meno appare, troppo spesso evocato e troppo poco praticato.
Un giovanotto, uno scout come era Paolo, probabilmente, ponendole come preghiera dei fedeli, ha detto alcune cose che mi hanno colpito. Insegnamenti alla Giuntella, filosofia di vita. Uno: "Su questioni come povertà, guerra, ingiustizia sociale, non esiste una lettura di destra, di centro o di sinistra. O si è da una parte o si è dall'altra". Assieme, in tempi di nomine Rai, avevamo elaborato un'altra considerazione: "Le porcate non sono né di destra né di sinistra. Sono semplicemente porcate". In chiesa un altro ragazzo, citando l'invocazione evangelica ai cristiani dell'essere sale e lievito, ha ricordato il paradosso educativo e politico tipico di Paolo: "L'identità cristiana non può voler dire farsi saliera e forno". Anti ideologismo per un'inossidabile idealità.
Paolo Giuntella era molto di più e molto meglio di quanto io sia capace di raccontare. Io ho perso un amico, un fratello di tante speranze, obiettivi, di tante illusioni che illuminano la vita. Tutti noi abbiamo perso un bravo giornalista ed un galantuomo, e non è una sottrazione da poco.
Ennio Remondino
| inviato da larete il 28/5/2008 alle 14:27 | |
28 maggio 2008
Rapsodia per Paolo
Rapsodia per Paolo
di Marco Damilano (Europa, 27 maggio 2008)
Sulla parete della stanza, interamente coperti da scatole di sigari, pile di libri, copertine di cd, spuntavano un manifesto di Benigno Zaccagnini del ’76 («Ha vinto Zac»), una immagine di Gandhi con Chaplin e la foto di un convegno a Brentonico del 1983, con Pietro Scoppola, Achille Ardigò e Roberto Ruffilli a parlare di Moro e Bachelet e in piedi lui, il padrone di casa. L'ospite che per la prima volta metteva piede nell’antro veniva accolto da uno spiritual a tutto volume e da Paolo, in apparenza poco intenzionato a metterlo a suo agio, almeno nei cinque minuti iniziali. Perché poi da lì partivano discussioni interminabili, serate indimenticabili.
Giovedì 22 maggio Paolo Giuntella si è «accoccolato nel Signore», come amava dire. Lo si è ricordato come giornalista del Tg1, scrittore, presidente della Lega democratica di Ardigò, Scoppola, Gorrieri, Gaiotti De Biase, Lipari, Prodi, fondatore dell’associazione Rosa Bianca... Tutto vero. Ma Paolo è stato molto altro ancora. Valgono per lui le parole che aveva usato per l’amico Cesare Martino, sociologo prematuramente scomparso: «evangelicamente libertario e anarco-cristiano». Un intellettuale militante, un viandante della parola. Un nomade irrequieto di dogmi, ideologie, incasellamenti. Eppure tenacemente attaccato alle sue convinzioni, solido sulle sue radici, un albero ben piantato sul fiume. Non aveva mai dimenticato la lezione di Mounier: l'avvenimento sarà il tuo maestro interiore. I fatti della quotidianità e le persone in carne e ossa, perché «i pensatori si accorgeranno della fine del mondo un quarto d'ora dopo». I suoi eroi erano due giornalisti, irregolari come lui: il convertito Gilbert Chesterton, di cui rivendicava la passione per la birra e i sigari, e Giuseppe Donati, per la fedeltà sofferta alla Chiesa, perfino nell'amarezza dell'appoggio al fascismo.
Giuntella è stato il personaggio più irruento di una generazione, quella dei cattolici democratici cresciuti tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. I figli e i nipoti del Concilio, di Lazzati, Dossetti, Montini, segnati per sempre dalla decapitazione delle intelligenze migliori, Moro, Bachelet, Ruffilli. Una cultura che non può essere rinchiusa nei confini della Dc o della sinistra dc, né tantomeno nel recinto più ristretto dei partiti che ne hanno preteso l’eredità, come la parabola di Paolo dimostra. Una storia poco raccontata: in libreria e in tv dilagano i cuori neri e i loro omologhi rossi, ma non questi credenti che rappresentano un bel pezzo del Paese, cattolici e anti-integralisti, movimentisti e istituzionali. Colpa del silenzio di tanti, colpa del deserto provocato da venti anni di mortificazione dei laici nella Chiesa.
In questo deserto Giuntella non ha mai smesso di gridare, con mitezza e ironia. Girava senza sosta l'Italia in lungo e in largo, per parrocchie, associazioni, comunità. Viaggi in macchina che potevano durare anche otto ore, con lunghe soste in trattorie poco frequentate. Lui, autorevole volto del Tg1, si spostava anche per poche persone. Estraeva dal quadernino valanghe di spunti, provocazioni: l'ultimo libro, l'ultimo disco jazz, «perché a credere sono rimasti solo i musicisti», l'ultima litigata... Disordinato, magnificamente disorganico, spiazzante. Una volta, cambiando le parole, intonò “Bandiera rossa” davanti a Veltroni, un po' imbarazzato. Un vero leader per i ragazzi di Zac e per quelli della Rete, per i giovani di Azione cattolica, Agesci, Fuci, Acli, con un credo riassunto nello slogan del cileno Rodomiro Tomic: «Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia».
Il suo sogno era un «partito progressista “liberal” promosso anche da cattolici». Con la certezza che ai cattolici fosse assegnata la missione di tenere insieme riformismo e profezia, cultura di governo, tensione ideale e il sentimento popolare. E il compito di evitare per la sinistra post-ideologica la fuga in «una modernizzazione affascinante ma senz’anima, legata a una secolarizzazione in cui è radicalmente estromessa la questione del senso», come aveva previsto già nell'87.
Quel partito si chiamava Ulivo e poi Partito democratico. Ma quando il Pd è finalmente arrivato, Paolo aveva già cambiato passo. La sua buona battaglia si era spostata sul fronte del pluralismo ecclesiale, la sua più grande preoccupazione. Ha continuato a lavorare fino all'ultimo, sempre più con l'occhio al mondo, dai gesuiti salvadoregni trucidati dagli squadroni della morte all'adorata Irlanda alla comunità congolese di Roma, tutti componenti della sua ideale Internazionale delle Beatitudini, l'unica in cui si riconoscesse davvero. E quando vedeva colleghi magari ex gruppettari sgomitare a caccia di posti e visibilità sorrideva ricordando che il suo libro di formazione era “Opinioni di un clown” di Heinrich Boll: il giullare che strappa la maschera al potere, lo demistifica, lo rende nudo.
Solo lì, nel tramandare di padre in figlio il gomitolo dell'alleluja, il filo disperso che sembra impossibile acchiappare nella tragica storia degli uomini, vedeva la possibilità di un cambiamento anche sociale e politico, la speranza di cieli nuovi e terre nuove, l'attesa che la notte finisca, perché la notte si fa più scura quando il mattino sta arrivando. Chi ha ascoltato ai suoi funerali trasformati in una danza della vita le parole dei figli Osea, Tommi e Irene sa che il tesoro è ben custodito. Nella sua camera aveva appeso tre poster di Chagall pieni di blu: il blu è stata la prima cosa che ha visto quando è arrivato lì, di fronte all'Osteria del vecchio d'Israele dove, Paolo ne era sicuro, sui tavoli di legno portano il vino di Cana, «che è gratis, non sbronza mai e non fa male».
| inviato da larete il 28/5/2008 alle 14:2 | |
22 maggio 2008
Paolo Giuntella. In ricordo di una persona speciale.
Paolo Giuntella era davvero una figura splendida.
Molti italiani lo conoscono come il "quirinalista del Tg1", ma la sua attività di animatore culturale e politico oltre che di giornalista e saggista andava molto oltre.
A chi organizzò a Montesole una bella e intensa scuola di formazione un paio di anni fa la sua testimonianza rimase impressa, così come la semplicità profonda della sua persona.
Ricordo non molti giorni fa l'ultima volta che abbiamo incrociato i nostri sguardi.
Non trovai le parole.
Stasera ho aperto il suo ultimo libro.
Ho trovato questo passo di Shakespeare, nel capitolo : "LA MORTE NON AVRA' L'ULTIMA PAROLA".
Clown: Buona signora, perchè portate il lutto? Olivia: "Buon buffone, per la morte di mio fratello. Clown: Penso che la sua anima si trovi all'inferno, signora. Olivia: E io invece so che si trova in paradiso, buffone. Clown: Tanto più siete sciocca allora, signora, a portare il lutto e affliggervi perchè l'anima di vostro fratello si trova in paradiso.
A Osea, Laura, Tommy e tutti i familiari un abbraccio forte. Forte.
| inviato da larete il 22/5/2008 alle 20:39 | |
17 maggio 2008
Public Speaking (Nicola Oliva)
Nel tempo della democrazia sospesa
La scelta della linea politica non può che passare attraverso il confronto dialettico. L’affermazione di nuove idee, l’invocazione del merito, l’appello a che si promuova una politica che liberi le energie migliori, passano necessariamente per la capacità di divergere dal pensiero di gruppo, e così intraprendere strade diverse. L’adesione acritica non porta lontano. Mi limito a osservare che si ha come la sensazione di vivere in un tempo sospeso. Il Pd deve assumere un’identità, un profilo, chiarire le linee guida, elaborare un ragionamento e deve farlo a partire dalla presa d’atto della realtà delle cose.
Tanto per chiarire, ho letto un documento indirizzato ai partiti da un'associazione di professionisti. Ogni volta che si entra in un argomento, per esprimere dei giudizi occorre circoscrivere e stabilire il terreno su cui si vanno a fare i ragionamenti.
In quel testo si dà un giudizio di valore cui fanno da corollario alcune richieste per la categoria. Si afferma che lo sviluppo dell'economia fa perno sulla centralità del lavoro intellettuale nella società postindustriale. D’altra parte, come ho già riportato in passato, è documentata la progressiva marginalizzazione produttiva. Con poche eccezioni, stiamo assistendo allo spostamento delle produzioni industriali da Ovest a Est, da Nord verso Sud. Negli anni i migliori economisti, esaltando le virtù liberali, hanno spiegato che la crescita dell’economia dei servizi avrebbe risolto gli squilibri, ma oggi si evidenziano invece i limiti e storture. Nel nome del cittadino consumatore, della globalizzazione che funziona, della finanziarizzazione, si è assecondata una tendenza che non ha premiato la destinazione di risorse e risparmi verso l’irrobustimento del manifatturiero, così da generare benessere e lavoro. La freddezza dei numeri fornisce una fotografia delle difficoltà che stiamo vivendo: al momento della fondazione dell’Unione Europea i servizi erano al 55% mentre il settore industriale era al 40%, oggi il dato si attesta attorno al 20%. Ciò porta ad una considerazione: stiamo scoprendo amaramente sulla nostra pelle che negli anni '90 abbiamo esaltato i vantaggi dell'economia dei servizi, dimenticandoci che questi sono complementari all'industria. E' un errore di prospettiva che adesso scontiamo, dobbiamo riorientare le politiche. C’è da comprendere il motivo delle difficoltà economiche e sociali degli italiani. Con un titolo azzeccato il Foglio parla di una “caduta liberal” dopo il crollo dei laburisti inglesi. Non si tratta di discutere qui il valore dell’economia di mercato, ma degli eccessi del turbocapitalismo, con la finanziarizzazione dell’economia che va producendo una bolla dietro l’altra, come osserva Giacomo Vaciago sul Sole24ore. I guasti li abbiamo sotto gli occhi. In Nuova Zelanda sono costretti a rinazionalizzare le ferrovie, Inghilterra e Stati Uniti sono dovuti intervenire al salvataggio di due banche; la bolla legata a energia e cibo sta generando una crisi alimentare di dimensioni mondiali. Pare proprio che il bagaglio culturale con cui si pretende di imbrigliare la realtà delle cose dia segnali di incapacità di comprensione dei fenomeni. Il Pd deve darsi un’anima politica, proporre un patto di cooperazione tra stati in nome dell’interesse al progresso dei popoli, e darsi così una fisionomia di partito che propone riforme per il bene comune. È adesso quanto mai necessario trovare momenti di riflessione politica che vadano oltre il dato elettorale, per dare al PD un profilo adeguato al tempo che viviamo.
Nicola
| inviato da larete il 17/5/2008 alle 12:21 | |
16 maggio 2008
Razzismo.
L'intervento: «No alle crociate contro i rom»
«Ogni forma di razzismo è peccato»
«Sono desolato. Una opportunista utilizzazione del cosiddetto tema sicurezza sta creando un tipo di rifiuto vicino all'odio»
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Alcuni amici tra le milleottocento aziende italiane operanti in Romania mi dicono che hanno cominciato ad assumere rom e, con loro grande sorpresa, li hanno trovati operai attivi e intelligenti. Io stesso osservo a casa mia alcune decine di Rom che lavorano duro dalla mattina presto alla sera. Nessun dubbio che chi commette reati debba essere punito. Detto questo, è possibile oggi affermare che ogni forma di discriminazione razzista almeno nei suoi effetti è un grave peccato contro Dio? Come cristiano e come prete sono desolato per i giudizi, gli insulti, i comportamenti di molte persone, singoli cittadini e amministratori i quali esprimono solo parole e azioni di rifiuto, rancore, disprezzo. Il giovane studente picchiato dai suoi compagni perché «sporco romeno» è uno degli esempi delle conseguenze possibili e purtroppo reali.
Una esagerata, opportunista utilizzazione del cosiddetto «tema sicurezza» sta creando nei nostri quartieri, tra molte persone, soprattutto gli anziani e le persone che vivono condizioni di povertà, un tipo di rifiuto che sta molto vicino all'odio. E l'odio è, per un cristiano, il peccato più grave. Il clima che viviamo è la prova
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Don Gino Rigoldi (foto Newpress) | più provata della debolezza del messaggio cristiano nella nostra città. Non credo sia giusto parlare di fallimento della azione evangelizzatrice della Chiesa italiana ma qualche riflessione andrà pure fatta e qualche posizione presa anche perché è intollerabile il fatto che molti dei promotori di questa «sicurezza» si definiscano difensori della fede. Posso assicurare che non si può difendere la fede bestemmiando Dio e la vera bestemmia contro Dio è ogni forma di rifiuto, di rancore o addirittura di odio. L'amore del prossimo prevede certamente anche il conflitto, la pena e la punizione. Ma anche quando punisco o accompagno ai confini chi deve essere rimandato nella sua nazione devo sapere che sto trattando con un mio fratello e una mia sorella. Perché il nucleo della fede cristiana sta nella affermazione che ogni uomo e ogni donna, di qualunque religione, nazione, colore, appartenenza, sono comunque figlio o figlia di Dio. Noi possiamo avere opinioni politiche o sociali diverse. Sulle questioni diverse dal dogma o dai fondamenti della morale possiamo addirittura essere in disaccordo col Papa.
Ma non possiamo, come cristiani, permetterci di essere in disaccordo con Gesù Cristo. Credo che un bel po' di cristiani debbano pensarci un qualche tempo prima di ritornare in chiesa e fare la comunione perché, come ha detto Gesù: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti». Qualcuno pensava in passato che fosse difficile credere ai concetti, ai ragionamenti teologici. Oggi, più che mai, la difficoltà della fede sta nel credere alla legge della giustizia e dell'amore. Vale la pena che cominciamo a mettere in seria crisi il nostro modo di essere cattolici. Infine, come cristiano e come sacerdote, raccomanderei a chiunque di non ergersi quale difensore della fede. Dio sa difendersi benissimo anche da solo. Quello che dobbiamo sapere e fare è già scritto.
Gino Rigoldi |
| inviato da larete il 16/5/2008 alle 18:18 | |
15 maggio 2008
No. Le liste bloccate alle europee no.
Fermate Cicchitto e Ceccanti.
F.L.
| inviato da larete il 15/5/2008 alle 9:54 | |
10 maggio 2008
Birmania.
IL REPORTAGE. Fantasmi senza cibo e coperte vagano tra le rovine controllati dai soldati Il ciclone Nargis ha devastato gran parte della Birmania: già 65.000 i morti
A Rangoon vietato sopravvivere La giunta chiude le porte ai soccorsi
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
RANGOON - Le immagini crude dell'apocalisse che avevamo visto giovedì notte si stagliano ancora più violente con le prime luci dell'alba. Gruppi di soldati lavorano agli angoli delle strade. Raccolgono montagne di alberi ridotti in tronchi. Sono tornati allo scoperto. Ma restano a distanza, isolati, protetti da altri militari armati. Diffidano della popolazione, questa massa di disperati, uomini e donne, che adesso escono dai vicoli invasi dal fango e dai detriti. Spuntano dai portoni, trasformati in anfratti; dai giacigli di fortuna ricavati tra pezzi di lamiera e di cemento. Vagano alla ricerca di cibo, di acqua, di benzina. Tentano di dare senso a un'esistenza cancellata in una sola notte.
Lasciamo una Birmania in agonia, isolata dal resto del mondo, governata da una giunta sorda ad ogni offerta di aiuto, incapace di distinguere gli interessi politici dai contributi umanitari. Anche l'Onu, alla fine, ha gettato la spugna. Dopo un assurdo braccio di ferro durato cinque giorni, la struttura del Pam, incaricata di fornire i generi di prima necessità, ha deciso di sospendere il ponte aereo. I timidi segnali di apertura della giunta guidata dal generale Than Shwe si sono subito chiusi. Cinici interessi di potere e di business, ammantati da un orgoglio di facciata, prevalgono su centomila morti e due milioni di senza tetto. Compriamo una copia dell'unico giornale in circolazione, la "Nuova luce del Myanmar". E' la voce del regime. In prima pagina, a caratteri cubitali, i birmani possono leggere la loro sentenza.
"Attualmente diamo la precedenza agli aiuti di emergenza e siamo impegnati nello strenuo sforzo di trasportarli nella zone colpite", recita un comunicato del ministero degli Esteri. "Per questo il Paese non è pronto a ricevere le squadre di soccorso e dei media provenienti dall'estero". Un modo formale ma chiaro di rispedire al mittente l'offerta pressante di un aiuto. "Siamo perfettamente in grado di affrontare l'emergenza", fanno sapere dalla giunta. "Voi spediteci il materiale di prima necessità, penseremo noi a trasportarlo, con i nostri mezzi nelle aree dove i nostri soccorritori stanno già operando".
Nel paese restano solo le pochissime organizzazioni non governative che hanno stipulato da anni un contratto di collaborazione. Ma devono rispettare ordini e condizioni, con il silenzioso ricatto di vedersi revocato all'istante il permesso di distribuire viveri e medicinali. Save the children, il nostro Cesvi, Médicins sans frontière possono muoversi tra mille difficoltà e divieti. Per il momento viene consentita solo la distribuzione di pasticche per la depurazione dell'acqua che risulta contaminata in gran parte delle regioni del sud.
Perfino il primo ministro thailandese, Samak Sunderavej, ha dovuto rinunciare alla sua visita a Rangoon prevista per questo fine settimana. Dieci cargo pieni di medicinali, cibo, tende, vestiti e altri beni di prima necessità sostano da cinque giorni all'aeroporto di Bangkok. Ha atteso, pazientato, sollecitato, evitato di interferire. Ma alla fine, davanti ad un'ottusa chiusura si è indignato: "Dato che il personale straniero non è il benvenuto", ha sbottato ieri mattina, "non ha senso che io vada in Birmania".
Anche noi decidiamo di andare via. Il clima che si respira attorno alla presenza degli stranieri non è incoraggiante. I giornalisti, poi, sono considerati dei veri intrusi. Soprattutto in queste ore, alla vigilia di un referendum sul quale la Giunta militare chiama a raccolta la popolazione facendo leva sull'amore patriottico. Nello stesso quotidiano ufficiale governativo, si parla poco e niente della immane catastrofe che stanno vivendo milioni di birmani.
Questo è un problema interno. Non riguarda il mondo. L'importante, adesso, è far passare un referendum che è stato ritagliato a misura del regime. "Se volete bene al vostro paese dovete andare a votare in massa e dovete votare sì", incita la "Nuova luce del Myanmar". La Nld, la National league for democracy di Aun San Suu Kiy, aveva chiesto inutilmente di rinviare la consultazione. E' impossibile votare in queste condizioni, senza un minimo di campagna elettorale, chiarimenti, spiegazioni. Senza seggi, in un paese ridotto allo stremo, ignaro del numero esatto di morti, con molte zone ancora isolate, altre sommerse da metri di fango, uomini e animali morti restituiti dal riflusso delle acque verso il mare. I birmani devono fare i conti con la fame, con i primi saccheggi, con la rabbia, la frustrazione. E con le malattie, come il colera, la diarrea, la malaria, che incombono e già iniziano ad affacciarsi.
La strada che porta verso l'aeroporto è ancora sommersa da alberi e macerie. La luce del giorno, fredda, lattiginosa, coperta da uno strato di nuvole che annunciano altre piogge battenti, ci offre la dimensione del disastro. Lo spettacolo di distruzione è impressionante: non c'è angolo, casa, struttura che non sia lesionata, invasa dagli alberi secolari di tek, duro come l'acciaio, abbattuti dal vento, dai pali della luce e degli scheletri immensi dei cartelloni pubblicitari piegati e spezzati.
La vita riprende con il passare delle ore. Lungo le strade gruppi di soldati, le divise verdi immacolate, si muovono come alieni in un paese che non conoscono. Popolazione e militari non si parlano, non si avvicinano, non si mischiano. In ogni paese colpito da simili sventure, scatta subito una collaborazione istintiva. Si lavora insieme, si soccorre insieme. Qui, è diverso. Tra soldati e civili c'è distacco. Sicuramente rabbia per i privilegi concessi ai primi e sconosciuti ai secondi e per le repressioni che hanno provocato morti, feriti, arresti in massa e sparizioni. Indossare una divisa in Birmania significa poter mangiare bene e dormire al caldo. Avere un lavoro sicuro, un salario sicuro, ma soprattutto un immenso potere.
Ossessionata dai suoi fantasmi, superstiziosa al punto da consultare per ogni mossa gli indovini di corte, la Giunta militare ha scelto di isolarsi anche fisicamente dal resto del Paese. Due anni fa ha trasferito ministeri e quartieri generali nel centro della Birmania. Oggi decine di migliaia di soldati, ufficiali e impiegati del governo vivono in una città trasformata in un bunker, inaccessibile e segreta. E' moderna, confortevole, con i suoi supermercati, grandi palazzi con appartamenti di lusso, attrezzature sportive, un aeroporto privato, aria condizionata.
Ma soprattutto senza il fastidio di un estraneo, anche birmano. I militari tagliano e raccolgono gli alberi che bloccano le strade, spazzano, puliscono, trasportano queste montagne di legno e di frasche in luoghi che pochi conoscono. Non c'è frenesia, concitazione. Si lavora con calma, si eseguono ordini che vengono impartiti più volte ed eseguiti a fatica, senza molta convinzione.
La gente resta a distanza. Non concede nemmeno uno sguardo. Pensa a sopravvivere. Attende un autobus, un camioncino, un carretto. La maggioranza si avvia a piedi. I ragazzi verso le scuole lesionate, gli uomini e le donne negli uffici che hanno resistito alla furia del ciclone, i più anziani a raccogliere la legna per riscaldarsi e cucinare.
Non c'è tempo per aspettare gli aiuti che il regime continua a rifiutare. Sono stati respinti due aerei del Qatar e dell'Onu. C'era personale straniero a bordo pronto a sbarcare. L'ufficio meteorologico thailandese lancia un nuovo allarme: per la prossima settimana sono previste piogge battenti sulla Birmania. Le strade in terra si trasformeranno in un pantano, i pochi soccorsi rischiano di essere bloccati. Sarebbe una vera ecatombe.
La Giunta militare sigilla il paese. Cris Kaye, responsabile per l'Asia del Pam, si arrende rassegnato: "Le restrizioni imposte sono inaccettabili. Sospendiamo l'invio degli aiuti". Lasciamo un aeroporto moderno, efficiente, tirato a lucido. Sembra irreale. I passeggeri fanno la fila, passano i controlli, attendono l'apertura dei gate. Conta l'immagine, il regime vuole dimostrare che controlla l'emergenza. Sulla pista un paio di elicotteri militari si apprestano a decollare. Pochi viveri, qualche scatolone di medicinali, casse di bottiglie d'acqua. Molti soldati. Gettiamo uno sguardo dal finestrino del nostro aereo: ci sono solo immensi acquitrini punteggiati dalle cupole bianche e dorate delle pagode.
(10 maggio 2008)
| inviato da larete il 10/5/2008 alle 11:56 | |
7 maggio 2008
Secessioni....
Ieri la firma del trattato bilaterale, entro la fine dell'anno referendum e voto La capitale del nuovo Stato sarà Nuuk, 15mila abitanti e due ristoranti
La lunga marcia della Groenlandia per la secessione dalla Danimarca
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI
La bandiera della Groenlandia BERLINO - Sta per nascere una nuova nazione, e di fatto sarà il primo Stato eschimese. E una lingua eschimese diventerà ufficiale, lassù tra i ghiacci eterni del grande nord. La Groenlandia, la più grande isola del mondo, ha cominciato ieri a scogliere gli ultimi legami con la madrepatria Danimarca, l'ex potenza coloniale. Lentamente, ma nascerà uno Stato vasto come sei Germanie e abitato da appena 57mila persone. Sarà nazione sovrana grazie alle ingenti risorse di petrolio, metalli preziosi e altre materie prime, ma dovrà appoggiarsi a Copenaghen e al resto della Vecchia Europa per formare la sua classe dirigente.
E per la prima volta dal dopo-colonialismo uno Stato europeo perderà il 98 per cento del suo territorio. La svolta è cominciata ieri, con la firma di un trattato tra il premier conservatore danese, Anders Fogh Rasmussen, e il governatore-premier di Groenlandia, il socialdemocratico Hans Enoksen. Entro fine anno un referendum in Groenlandia e un voto del Parlamento reale danese daranno il responso già ora scontato: si andrà step by step verso l'indipendenza e il diritto alla secessione.
I sogni volano alto, anche quando è difficile. Anche quando la capitale del futuro Stato eschimese indipendente, Nuuk, ha sì e no 15mila abitanti, come un grosso villaggio europeo, e appena due ristoranti di lusso, entrambi dipendenti ogni giorno dalle forniture di cibo fresco che arrivano da Copenaghen. Da qualche anno anche il grande mondo globale si è accorto che la Groenlandia esiste. Per caso, grazie a un film, Il senso di Smilla per la neve, storia di una giovane in cerca di identità. Sulle orme di Smilla, i groenlandesi sono decisi a non mollare, vogliono procedere sulla via indicata dal Trattato: addio a Copenaghen, addio dolce ma senza ritorno.
Siamo appena agli inizi. La Danimarca versa ancora a Nuuk 3 miliardi di corone l'anno, cioè oltre 400 milioni di euro, che fanno 7000 euro per ogni abitante dell'immensa isola dei ghiacci eterni. E così la tiene in vita. Gli Airbus cargo della parte danese della Sas, la compagnia aerea scandinava, atterrano ogni giorno in Groenlandia: portano tutto, dalla frutta, alla birra, alle medicine. Gli F16 della Royal Danish Air Force pattugliano ancora i cieli del futuro Stato eschimese, spesso in incontri ravvicinati con i bombardieri atomici Tupolev che Putin ha rimesso in volo di pattuglia armata permanente. Ma da ieri, il divorzio lento è avviato, irreversibile. Ai danesi resterà solo, temporaneamente, la politica estera, come fece Dublino quando si sganciò da Londra.
Petrolio in abbondanza, e altre materie prime, saranno la base della sovranità, promette Enoksen. "Dobbiamo difendere il diritto di proprietà dei groenlandesi sulle loro risorse", dice il leader socialdemocratico. Ma non è solo questione di soldi, anche di cultura nazionale riscoperta. Spesso troppo diversa da quella europea rappresentata dai danesi. "La caccia, alle foche, ai trichechi, alle balene per noi è parte del quotidiano, mangiare carne di balena o prosciutto di foca è tradizione", spiega all'inviato della Sueddeutsche Zeitung Job Hellmann, cacciatore di professione, nome danese ma lingua eschimese. "Abbiamo inventato noi l'igloo, il kayak, l'eskimo, e ci sentiamo trattati dall'Unione europea e da Copenaghen come barbari. E cosa sono allora gli europei che vengono nelle nostre acque con le loro flotte di pescherecci atlantici e ci tolgono il pane?", chiede polemicamente Kupik Kleist, parlamentare, presidente del Partito per l'indipendenza, affine alla sinistra radicale.
"Tutto quello che arriva in aereo da Copenaghen qui costa molto più che in Danimarca", mugugna Jeppe-Eiving Nielsen, capocuoco del miglior ristorante di Nuuk, "mentre il pesce di qui è così fresco che i filetti ancora tremano quando li tagli".
La via verso l'indipendenza sarà dura: troppi poveri, troppo pochi i giovani qualificati per una futura classe dirigente. Ma già fanno capolino nuovi gruppi emergenti. Come Bjarke de Renouard, manager: è danese, ha sposato una groenlandese, della lingua locale non capisce una parola "ma - dice - i miei figli la parlano correntemente, sarà la loro identità domani".
| inviato da larete il 7/5/2008 alle 9:6 | |
4 maggio 2008
Riprendere in mano il progetto del Pd. Ma come? (Nicola Oliva)
Dobbiamo riprendere in mano il progetto del Pd. Ma come? Siete d'accordo? La domanda spinge a prendere posizione. ciao Nicola
Dalle urne esce il ritratto di un paese che in pochi si attendevano, i perché di quello che alcuni hanno definito uno tsunami elettorale saranno da approfondire accuratamente. Gli italiani hanno preferito il Pdl, che ha vinto sul terreno della protezione dalle insicurezze. Si è parlato molto di immigrati e di criminalità, ma non si è compreso che l’insicurezza, di cui invece si sono fatti interpreti la Lega Nord e Giulio Tremonti, è anche e soprattutto legata alla crisi finanziaria internazionale, alla politica romana inconcludente ed alla tecnocrazia di Bruxelles. Per certi versi, con queste elezioni sono tornati alla ribalta i territori, sia la Lega Nord che Lombardo al sud si propongono di modificare l’architettura dello stato per rispondere al senso di smarrimento che produce insicurezza. È anche vero, non si può negarlo, che è in discussione l’idea di Europa. Dopo la bocciatura francese e olandese della Costituzione europea, nessuno ha più pensato di rimettere al giudizio popolare il nuovo Trattato di Lisbona. La Lega Nord rappresenta un problema quando mette in dubbio il concetto di unità nazionale, indicando la prospettiva della separazione: si vuole fare in modo che i territori contrattino direttamente con Bruxelles? È il ritorno all’Europa medioevale. Su quest’argomento Bossi non è il solo a parlarne, ma lui si esprime nei modi che tutti sappiamo. Si sono così alimentate diffidenze, sentimenti contrari all’idea di unità politica, tanto che diventa di attualità la domanda: qual è la dimensione ottimale per servire un popolo? Lo stato nazione è un concetto proprio superato? Sia le logiche economiche, con il capitalismo globale e le sue attuali difficoltà, sia l’architettura europea mettono in scacco la dimensione nazionale: è anche questo il motivo per cui i politici eletti sono accusati di essere una casta. Sono delegati dal popolo per governare la repubblica, ma non hanno la possibilità di intervenire perché le leve sono altrove, e vengono accusati di inconcludenza. Ed è allora lungo il sentiero chiusura-apertura, che possiamo declinare come politica elitaria o popolare, per il bene comune o per il bene solo di pochi, che dobbiamo muoverci. Si tratta allora di entrare nel merito delle nostre proposte, analizzare approfonditamente gli assunti su cui si basano le ricette politiche del PD. Delle due una: o siamo troppo avanti e non ci capiscono, o parliamo di cose che non rispondono alla domanda di politica del paese. La richiesta di novità che viene confermata dal risultato di Roma non è semplicemente una domanda di facce nuove, gli elettori vogliono un profondo cambiamento rispetto all’attuale proposta politica. C’è la richiesta di una discontinuità forte. Oltretutto dobbiamo interrogarci sul perché il PD non sfonda al centro, perché la proposta politica non è stata premiata dal ceto medio, perché il blocco sociale del centrodestra non è stato intaccato, piuttosto ne è uscito rafforzato. Queste riflessioni mi auguro che vengano intese per quel che sono, un invito a uscire dalla lettura del dato statistico per cercare di trovare le ragioni politiche del voto degli italiani. È un invito fiducioso a rimettere in moto il processo di elaborazione politica nel PD. C’è bisogno di chiarezza e di apertura. Il metodo del confronto, anche dialettico, seppur faticoso, deve farsi strada perché la discontinuità deve esserci, dobbiamo riprendere in mano il progetto del PD ed andare al cuore delle questioni.
| inviato da larete il 4/5/2008 alle 17:35 | |
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